L’incompatibilità tra carriera politica e magistratura è da anni al centro del dibattito politico (e non solo). Nel 2017 il Consiglio d’Europa, nel suo report “Greco” sulla corruzione, ha sottolineato l’esigenza per l’Italia di disciplinare meglio i rapporti tra magistrati e politica, per preservare l’indipendenza della magistratura agli occhi del cittadino.
Ad oggi il magistrato può mettersi in aspettativa ed essere eletto, ad esempio in Parlamento. Terminato il mandato parlamentare, può chiedere di tornare a fare il magistrato. Cosa che, come testimoniano diversi casi di alto profilo, succede spesso.
Un decreto legislativo del 2006 (il d.lgs. 109, all’art. 3 co. 1 lett. h) prevede solo che sia un illecito disciplinare, per il giudice, essere iscritto a un partito. Ma questo, come chiarito da una sentenza della Corte Costituzionale del 2018, non impedisce ai magistrati di partecipare alla vita politica del Paese e di essere eletti in determinati ruoli.
Al 23 agosto 2019, il governo non ha introdotto norme che vietino al magistrato che decide di intraprendere la carriera politica di tornare a esercitare le proprie funzioni precedenti.
Hanno detto che:
3 maggio 2019: «Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati, lasci il Tribunale e si candidi con la sinistra» (Matteo Salvini, ministro dell’Interno)